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nuovi broletti

Una delle scorse sere ho avuto modo di verificare quale potenza sia connaturata nell'architettura. Si trattava di un incontro organizzato dai partecipanti del Workout Pasubio che, a due mesi dall'evento in cui si dibatteva in prima istanza del futuro dell'edificio della fabbrica dismessa ex-Manzini di Parma, si sono ritrovati per confrontarsi su quali eventuali iniziative produrre nei prossimi sei mesi all'interno di quegli spazi.
http://www.workoutpasubio.it/
Percorrendo l'unica traccia conduttrice della sostenibilità economica delle proposte, sono emerse idee e atteggiamenti contrastanti: pragmatiche repliche di manifestazioni consolidate, luogo per mercatini, spazi pop-up di co-working, sede per sport acrobatici e via discorrendo. Tra lo sbaraglio di fare e incastrare tutto, e il freno a mano dello spauracchio di preventivi business-plan, quello che è emerso è il potere attrattivo di certi spazi.
































L'indifferenza verso un pezzo di periferia si è sbriciolata di fronte alla purezza di uno spazio che, seppur di mano anonima -l'attribuzione al maestro Pier Luigi Nervi è già più volte smentita- non è che la reinterpretazione di una aula. La tipologia funzionale -fabbrica, officina meccanica- con la sua dismissione è mutata in tipologia formale dell'hallenbauten. Indiscutibile è la presenza archetipica del vuoto espanso verso la trasfigurazione dello spazio interno circoscritto dalla volta e illuminato dalle finestrature finemente cesellate dai profili industriali. La struttura spoglia da ogni arredo assume un che di sacrale, una sorta di romanico industriale.

 

Ed è questo che ha trafitto ciascun visitatore e lo ha caricato di una responsabilità a difesa di quel coccio di città in degrado. Al pari di più antiche rovine, senza scomodare impropri paragoni, per cui anche solo quattro muri di mattoni con un albero spontaneamente cresciuto nel mezzo ci suscita una inquietudine nel profondo, anche l'ex-Manzini si offre come una architettura della città. E partendo da zero, quella sera, ci si è chiesti cosa si possa fare in una Aula pubblica. Quale nuovo potere collettivo collocare in questo broletto, battistero, basilica, agorà, radura di mattoni e cemento? Io ho riconosciuto un comune denominatore: idee. Sarà il luogo deputato all'espressione delle idee della collettività, dello stare insieme, del proporre e portare a termine attività, inclusioni, organizzazioni, aperture. Le idee sono sempre sostenibili. L'economia può non esserlo. Ma un'idea, se sorretta da una cultura della civitas, troverà la propria collocazione. Può nascere in un contesto, non superare una pragmatica verifica per un caso specifico ma risultare perfetta per una contingente situazione. E' per questo che è necessaria la concentrazione di diversità, la commistione, l'eterogeneità: per perseguire il riuso, lo scambio, la banda larga delle idee, del pensiero. E questa elettrica e collettivamente inconscia percezione,l'altra sera era palpabile.
Ora si apre un momento di raccolta delle proposte, di allargare l'invito a partecipanti, istituzioni, mecenati, individui. Ad ogni sì seguirà un chi. Ad ogni persona seguirà la sua ombra. Ad ogni luce si spegnerà un angolo di buio. E periferia non sarà sinonimo di degrado.



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