L’estate del 2015 oltre a portare
sul palcoscenico mondiale la congerie tecno-gastronomica globale organizzata
lungo i fieristici cardo e decumano dai giorni contati, ha funzionato come
campana di fine intervallo e chiamata a raccolta delle immobiliari etoile, per
l’apertura del sipario sul rinnovamento urbano di Milano. Operazioni di
riconversione e ripristino –partite a macchia di leopardo nell’ultimo decennio-
sono organicamente sbocciate in maniera massiva da questa primavera mostrando una città-metropoli che intende
dialogare tramite sintassi internazionale portando argomenti riferiti alla
cultura e alla storia. Servite da nuove infrastrutture di collegamento sono
emerse nuove centralità corpose quali il Portello, Porta Nuova e City Life ma
anche deliziose operazioni puntuali quali il recupero della Darsena e il
Mercato Metropolitano. La tradizionale coscienza civica locale connaturata negli
innesti di impresa industria e cultura si
è radunata sotto le luci del Castello Sforzesco, del Museo delle Culture, dei
Silos di Armani e della Fondazione Prada.
La rinnovata sala
dell’Infermeria dell’Ospedale degli Spagnoli ospita il nuovo allestimento della
Pietà Rondanini con l’eco dell’opera del torre
michelangiolesca che ancora risuona nell’irrigidita figura, nella quale ripiegamento, abbandono ed estremo sostegno si
confondono. L’emozione di questa linea curva incarnata nella schiena della
Vergine ha suggerito al progettista Michele De Lucchi il rovesciamento del
percorso allestitivo, facendo giungere il pubblico alle spalle della statua e
recuperare la vista frontale solo dopo esservi girato attorno. Tutto lo spazio
della sala arretra di fronte a tanta bellezza: gli affreschi restaurati ne
propongono un commento cromatico e il pavimento con una finitura neutra
restituisce la cifra ebanista dell’architetto. L’illuminazione puntuale
disposta su multipli sostegni a pavimento da un lato esalta gli equilibri
cromatici ma dall’altro congela i dialoghi chiaroscurali della scultura, a
sfavore della visibilità dei colpi di scalpello che ritraggono il mistero
dell’infinito indefinito incarnato nell’opera. Questa appoggia su di un
piedistallo antisismico tecnologicamente avanzato ma dalle proporzioni che
tutto debbono ai momenti d’inerzia e molto poco al tradizionale gusto per gli
allestimenti artigianali, frutto di atteggiamenti critici post-internazionali,
dei maestri che da Albini e Scarpa giunge al limitrofo Canali del Museo del
Duomo. Ne esce un’aria che, anche a causa del riassetto dei percorsi di
distribuzione e ad un generale clima fieristico che influenza l’intera atmosfera
meneghina, esagera sul marketing iconografico del lascito di Michelangelo, fino
ad assomigliare più allo stand della Pietà che all’eredità della Sala degli
Scarlioni di BBPR. Insomma come nella migliore tradizione italiana, in seguito
all’intervento, già si sono accese due distinte fazioni che dibattono sui
ricorrenti temi del meglio prima o finalmente il nuovo.
Bizzose polemiche tra
committente e progettista hanno tuonato nei giorni dell’inaugurazione del
Mudec, il museo etno-antropologico delle collezioni comunali, sorto nei volumi
di parte delle acciaierie Ansaldo, in zona Tortona, l’East Village milanese. Una
operazione iniziata nel lontano 1990 con l’acquisizione dell’area da parte del
Comune, proseguita con il concorso per la “Città delle Culture” vinto nel 2000
da David Chipperfield e giunto finalmente ad una prima inaugurazione lo scorso
aprile delle mostre temporanee, in attesa di quella definitiva prevista per
l’autunno con l’apertura della collezione permanente. Il complesso è costituito
da un cluster di volumi funzionali rivestiti in lamiera zincata, raggruppati
attorno ad un polimorfo Hof traslucente che
ne gerarchizza le relazioni interne. Negli oltre 17.000 mq quadrati sono
distribuiti i servizi al visitatore, le sale per le mostre temporanee –
AFRICA, La terra degli spiriti fino al
30 agosto e MONDI A MILANO, Culture ed
esposizioni, 1874 – 1940 fino al 19 luglio- le sale per le esposizioni
permanenti suddivise per divise per regioni di provenienza: Africa Occidentale
e Centrale, Medio ed Estremo Oriente, America Meridionale e Centrale, Sudest
asiatico e infine Oceania, provenienti da diversi enti pubblici milanesi quali
il Museo Patrio Archeologico di Brera, il Museo Artistico Municipale e il Museo
di Storia Naturale, con la rinascimentale Wunderkammer di Manfredo Settala e la
collezione Bassani di arte africana. Interprete della nuova museografia –che a
fianco dei ruoli tradizionali si fa intrattenimento e ora hub- il Mudec punta
con decisione anche su spazi che restituiscano il senso dell’aspirazione ad
essere Città delle Culture. A fianco di auditorium, bistrot, design store,
caffetteria, concept store e ristorante, verrà inaugurata una biblioteca
tematica, le aule didattiche di Mudec academy24 - centro di alta formazione nei
settori cultura, arte, moda, design, food, turismo- e lo spazio Junior
destinato ai laboratori per futuri global citizen.
La città della moda non
poteva in questa occasione perdere la celebrazione di uno dei suoi cittadini
onorari più noti: Giorgio Armani ha infatti voluto sperimentare la propria
creatività avventurandosi tra le tipologie architettoniche e le strategie degli
allestimenti. Per mostrare l’evoluzione della produzione della propria maisòn
che ha deciso di celebrare i suoi primi quarant’anni proprio mentre passava da
Milano tutto il mondo, recupera gli ex-depositi dei cereali della Nestlé in via
Bergognone, conservando l’aspetto esterno grezzo e lavorando all’interno sulla
stratificazione di piani espositivi che si affacciano su un vuoto centrale.
Nell’Armani Silos -con al
piano terra la sezione «daywear», al primo la sezione «esotismi», al secondo
piano i «cromatismi», al terzo e ultimo piano la tematica «luce»- vengono mostrati i pezzi più rappresentativi
dell’intera storia produttiva dello stilista: 600 abiti, 200 accessori
suddivisi per temi, bozzetti, più di 1500 fotografie nell’archivio digitale
visitabile gratuitamente, caffetteria e gift shop. Se il contenuto è di
indiscutibile valore altrettanto non si può dire dell’esito architettonico che
non ritrova la chiarezza, i rapporti contenitore-contenuto e la capacità
narrativa delle sue precedenti mostre o di omologhi casi internazionali, appiattendosi
alla sobria eleganza dei flagship store a discapito del pathos che il monumento
museale dovrebbe comunque saper infondere. Tutto questo a testimoniare che la
costruzione dell’architettura non è solo questione di stile.
La coppia Bertelli Prada –inaugurando
quasi interamente la nuova Fondazione Prada- persegue la strada intrapresa da
oltre un decennio, giungendo ad una tappa fondamentale della propria
collaborazione con Rem Koolhaas/OMA, il quale definisce un repertoire questo campus di oltre 19.000 metri quadrati per l’arte
contemporanea –per intenderci il triplo del nuovo Whitney Museum di renzo Piano
a New York- costituito da sette edifici recuperati e tre nuove strutture:
Museum, destinato a mostre temporanee; Cinema, un auditorium multimediale;
Torre, un edificio in fase di ultimazione di dieci piani dedicato alla
collezione permanente e alle attività della Fondazione. L’edificio di ingresso
si caratterizza per due collaborazioni speciali: un’area didattica dedicata ai
bambini, curata da Giannetta Ottilia Latis, neuropediatra, e il Bar Luce, su progetto del regista Wes
Anderson, che ricrea l’atmosfera –tramite cromie, arredi e ,materiali- di un
tipico caffè della Milano neorealista. L’intervento spazia dal restauro
filologico di preziose testimonianze archeoindustriali alla costruzione di
nuove identità tramite l’utilizzo di finiture ardite come la foglia d’oro o la
schiuma di alluminio a rivestimento di volumi netti. “Ho utilizzato differenti configurazioni
spaziali fino a raggiungere la corretta complessità architettonica, in grado di
contribuire allo sviluppo di una programmazione culturale sperimentale e in
costante evoluzione, nella quale sia l’arte che l’architettura trarranno
beneficio dagli esiti delle reciproche sfide”, ha commentato
l’autore, aggiungendo assieme ai committenti che non si tratterà di un museo
tradizionale e che non avrà mai legami diretti con il mondo della moda. La
programmazione inaugurale affianca due proposte permanenti di opere site-specific
a firma di Thomas Demand e Robert Gober, ad una mostra curata da Salvatore
Settis –Serial Classic fino al 24 agosto- e a una mostra-rassegna
cinematografica a cura di Roman Polanski –My ispirations fino al 25 luglio.
Insomma a coronamento del nuovo riassetto –di ciò che effettivamente ed in maniera massiva rimarrà dopo aver smaltito la grande abbuffata planetaria-della città di Milano, a fianco delle rilevanti operazioni di trasformazione urbana si associano le realizzazioni culturali pubbliche e private che, nonostante i problemi di gentrificazione in atto, ne rafforzano le vocazioni di capitale della sperimentazione, del gusto e dell’attenzione critica verso le preesistenze, che la avvicina e al tempo stesso la distingue da tutte le altri metropoli che in occasioni analoghe hanno proposto il rinnovamento delle proprie identità.
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